domenica 27 luglio 2008

La sindrome del burn-out

Visto e considerato che sono appena rientrato da una provvidenziale settimana di agognate quanto meritate vacanze, coglierei l'occasione per parlare di questa particolare sindrome forse ancora poco conosciuta da noi; ma che ha molto a che vedere anche con la professione del medico veterinario e quindi che interessa sia i colleghi (direttamente coinvolti) che i clienti (vittime involontarie di situazioni di malpractice ad essa correlate).

Vediamo dunque cosa si intende per "sindrome del burn-out".
Alcuni autori la identificano con lo stress lavorativo specifico delle helping professions (professioni d'aiuto), altri affermano che il burn-out si discosta dallo stress per la depersonalizzazione, cui esso dà luogo, che è caratterizzata da un atteggiamento di indifferenza, malevolenza e di cinismo verso i destinatari della propria attività lavorativa.
Il burn-out può anche essere inteso come una strategia particolare adottata dagli operatori per contrastare la condizione di stress lavorativo determinata da uno squilibrio tra richieste/esigenze lavorative e risorse disponibili.
Comunque esso va inteso come un processo multifattoriale che riguarda sia i soggetti che la sfera organizzativa e sociale nella quale operano.
Il concetto di burn-out (alla lettera essere bruciati, esauriti, scoppiati) è stato introdotto per indicare una serie di fenomeni di affaticamento, logoramento e improduttività lavorativa registrati nei lavoratori inseriti in attività professionali a carattere sociale.

Questa sindrome è stata osservata per la prima volta negli Stati Uniti in persone che svolgevano diverse professioni d’aiuto: infermieri, medici, insegnanti, assistenti sociali, poliziotti, operatori di ospedali psichiatrici, operatori per l’infanzia, ecc.
Attualmente non esiste una definizione universalmente condivisa del termine burn-out. Freudenberger è stato il primo studioso a usare il termine “burn-out” per indicare un complesso di sintomi, quali logoramento, esaurimento e depressione riscontrati in operatori sociali americani.
Successivamente Cherniss con “burn-out syndrome” definiva la risposta individuale ad una situazione lavorativa percepita come stressante e nella quale l’individuo non dispone di risorse e di strategie comportamentali o cognitive adeguate a fronteggiarla.
Secondo Maslach, il burn-out è un insieme di manifestazioni psicologiche e comportamentali che può insorgere in operatori che lavorano a contatto con la gente e che possono essere raggruppate in tre componenti: esaurimento emotivo, depersonalizzazione e ridotta realizzazione personale.

L’esaurimento emotivo consiste nel sentimento di essere emotivamente svuotato e annullato dal proprio lavoro, per effetto di un inaridimento emotivo del rapporto con gli altri.
La depersonalizzazione si presenta come un atteggiamento di allontanamento e di rifiuto (risposte comportamentali negative e sgarbate) nei confronti di coloro che richiedono o ricevono la prestazione professionale, il servizio o la cura.
La ridotta realizzazione personale riguarda la percezione della propria inadeguatezza al lavoro, la caduta dell'’autostima ed il sentimento di insuccesso nel proprio lavoro.
Il soggetto colpito da burn-out manifesta sintomi aspecifici (irrequietezza, senso di stanchezza ed esaurimento, apatia, nervosismo, insonnia), sintomi somatici (tachicardia, cefalee, nausea, ecc.), sintomi psicologici (depressione, bassa stima di sé, senso di colpa, sensazione di fallimento, rabbia e risentimento, alta resistenza ad andare al lavoro ogni giorno, indifferenza, negativismo, isolamento, sensazione di immobilismo, sospetto e paranoia, rigidità di pensiero e resistenza al cambiamento, difficoltà nelle relazioni con gli utenti, cinismo, atteggiamento colpevolizzante nei confronti degli utenti).
Tale situazione di disagio molto spesso induce il soggetto ad abuso di alcool o di farmaci.
Gli effetti negativi del burnout non coinvolgono solo il singolo lavoratore ma anche l’utenza, a cui viene offerto un servizio inadeguato ed un trattamento meno umano.
Dagli studi presenti in letteratura si tratta di una patologia multifattoriale a determinare la quale concorrono variabili individuali, fattori socio-ambientali e lavorativi.

Per l’insorgenza del burnout possono avere importanza fattori socio-organizzativi quali le aspettative connesse al ruolo, le relazioni interpersonali, le caratteristiche dell’ambiente di lavoro, l’organizzazione stessa del lavoro.
Inoltre sono state studiate le relazioni tra variabili anagrafiche (sesso, età, stato civile) e insorgenza del burn-out.
Tra queste l’età è quella che ha dato luogo a maggiori discussioni tra i diversi autori che si sono occupati dell’argomento.
Alcuni sostengono che l’età avanzata costituisca uno dei principali fattori di rischio di burn-out mentre altri ritengono invece che i sintomi di burnout sono più frequenti nei giovani, le cui aspettative sono deluse e stroncate dalla rigidezza delle organizzazioni lavorative.
Tra gli specialisti quelli più a rischio per il burn-out sono quelli che operano nell’ambito della medicina generale, della medicina del lavoro, della psichiatria, della medicina interna e dell’oncologia.
I risultati sembrano quindi indicare una polarizzazione tra “specialità a più alto burn-out”, dove spesso ci si occupa di pazienti cronici, incurabili o morenti, e “specialità a più basso burn-out”, ove i malati hanno prognosi più favorevole.

L’insorgenza della sindrome di burn-out negli operatori sanitari segue generalmente quattro fasi.
  • La prima fase (entusiasmo idealistico) è caratterizzata dalle motivazioni che hanno indotto gli operatori a scegliere un lavoro di tipo assistenziale: ovvero motivazioni consapevoli (migliorare il mondo e se stessi, sicurezza di impiego, svolgere un lavoro meno manuale e di maggiore prestigio) e motivazioni inconsce (desiderio di approfondire la conoscenza di sé e di esercitare una forma di potere o di controllo sugli altri); tali motivazioni sono spesso accompagnate da aspettative di “onnipotenza”, di soluzioni semplici, di successo generalizzato e immediato, di apprezzamento, di miglioramento del proprio status e altre ancora.
  • Nella seconda fase (stagnazione) l’operatore continua a lavorare, ma si accorge che il lavoro non soddisfa del tutto i suoi bisogni. Si passa così da un superinvestimento iniziale a un graduale disimpegno.
  • La fase più critica del burn-out è la terza (frustrazione). Il pensiero dominante dell’operatore è di non essere più in grado di aiutare alcuno, con profonda sensazione di inutilità e di non rispondenza del servizio ai reali bisogni dell’utenza; come fattori di frustrazione aggiuntivi intervengono lo scarso apprezzamento sia da parte dei superiori che da parte degli utenti, nonché la convinzione di una inadeguata formazione per il tipo di lavoro svolto. Il soggetto frustrato può assumere atteggiamenti aggressivi (verso se stesso o verso gli altri) e spesso mette in atto comportamenti di fuga (quali allontanamenti ingiustificati dal reparto, pause prolungate, frequenti assenze per malattia).
  • Il graduale disimpegno emozionale conseguente alla frustrazione, con passaggio dalla empatia all'apatia, costituisce la quarta fase, durante la quale spesso si assiste ad una vera e propria morte professionale.

Morale della favola: consiglio a tutti di interrompere ogni tanto, anche solo per brevi periodi, il lavoro, in particolare quando le pressioni esterne ed il carico di impegni diventano insostenibili, per poter riconquistare nuovamente quell'equilibrio necessario a svolgere le proprie mansioni nel migliore dei modi e con la dovuta professionalità, affinché anche i nostri pazienti innocenti non abbiano a risentirne e soprattutto senza dimenticare le proprie esigenze di riposo psicofisico: in fondo anche noi siamo dei semplici esseri umani...

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